La schita, dolce dell’Oltrepò Pavese
Uno dei simboli della cucina dell’Oltrepò Pavese, composta da acqua, farina bianca e strutto, la schita è qualcosa di unico da mangiare…
L’Oltrepò Pavese si trova fra il fiume Po e il mar Ligure, con la pianura rivierasca, ricca di coltivazioni d’ortaggi e verdure, di grano, di foraggi e di mais, le colline del vino e le vette dell’Appennino.
Vicino a grandi città, come Milano, Piacenza, Alessandria, Genova e Torino, l’Oltrepò risente da sempre dalla lunga storia di Piemonte, Liguria ed Emilia, che ne hanno influenzato le consuetudini e persino parole e di modi di dire.
Non è raro, ad esempio, che uno stesso termine sia espresso con pronuncia o sinonimi diversi in paesi a poca distanza fra loro e il fatto di essere un territorio unico a livello culturale e ambientale è uno dei grandi patrimoni dell’Oltrepò.
In questo contesto, la schita è un denominatore comune, non c’è località o famiglia dell’Oltrepò Pavese che non abbia preparato questa focaccetta non lievitata sinonimo di golosa merenda zuccherata, spuntino o gustoso abbinamento a salumi e formaggi.
Per la sua preparazione si prende una ciotola, si mette un po' di farina, un pizzico di sale e si bagna il tutto con l'acqua.
Dopo si frigge in una padella un po’ di strutto, versando il preparato fino a stenderlo in modo omogeneo su tutta la superficie, si attende finché è ben dorato e la schita è pronta per essere servita.
Sono pochi e di facile reperimento gli ingredienti della schita dell’Oltrepò Pavese, ma la loro lavorazione richiede pratica ed esperienza per le fluidità della pastella, quantità di composto distribuito sul fondo della padella e ottimale punto di doratura.
La pastella deve essere abbastanza fluida per essere distribuita rapidamente e uniformemente nella padella, in modo da ottenere uno spessore di pochi millimetri, non troppo sottile perché provocherebbe la sua bruciatura, a contatto con olio o strutto caldi, mentre quello eccessivo favorirebbe l’assorbimento dell’olio e dello strutto, rendendola indigesta.
Inoltre la schita non va cotta, immersa nell’olio o nello strutto, né fritta, ma soltanto dorata e il risultato finale non deve risultare morbido come una crespella e nemmeno croccante al punto di sbriciolarsi.
Nell'Oltrepò Pavese, dove viene anche chiamata schita d'la nona, farsùla o paradèla, la schita viene mangiata anche senza nessun'aggiunta, ma oggi ci sono diverse versioni, dolce, aggiungendo un pizzico di zucchero o una goccia di miele, e salata.
La schita, in dialetto, veniva anche chiamata cola, dato che l'impasto usato per farla era simile a quello usato come colla per la realizzazione della cartapesta o per incollare la carta.